Scusa Astathis, a volte il latino nuoce gravemente alla salute.
Fry, la Glagolskaja è splendida, ma impattare direttamente in quella non è l’inizio migliore (tremo al solo pensiero di cosa sarebbe successo se tu avessi incocciato, come prima cosa, nel Diario di uno scomparso. Io ti consiglio un inizio soft con la Sinfonietta e il Taras Bulba, e magari anche il sestetto Mladì –fra l’altro, tutta questa roba è disponibile in un doppio CD “Double Decca”-, per poi allargare lo sguardo alle opere per pianoforte e ai Quartetti e poi alle composizioni per coro. Non so dirti a che punto del cammino può venire la Glagolskaja, ma insomma, non certo al primo. Le opere liriche poi sono un problema anche per me).
Semplificando molto, si potrebbe dire che in musica sono esistiti, storicamente, tre modi per uscire dal Romanticismo: il primo è quello che potremmo chiamare scherzosamente “la musica degli insensibili”, e quindi Debussy, Ravel, Satie e soprattutto Stravinsky, i quali negavano di voler comunicare sentimenti: Debussy preferiva comunicare sensazioni, Ravel si spinse oltre e si dedicò alla perfezione artigianale delle proprie composizioni, Stravinsky infine scrisse che “la ragion d’essere della musica non risiede nell’espressione dei sentimenti” e che considerava “la musica, a cagione della sua essenza, impotente ad esprimere alcunché”. L’altra opzione fu il fare esattamente il contrario, selezionando alcuni stati emotivi molto forti (l’allucinazione, la follia) e portandoli all’esasperazione: è quel che fece l’espressionismo, che fu particolarmente adatto ad esprimere lo stato d’animo degli intellettuali fra le due guerre. La terza possibilità è la meno studiata e la meno famosa, ma è altrettanto interessante: è quella di Janacek. Kundera l’ha descritta assai bene nei suoi Testamenti traditi. Confesso che la lettura di quel libro ha spalancato ai miei occhi un mondo intero, quello del Novecento, che in precedenza avevo trascurato.
Janacek non rimproverò ai romantici l’aver parlato dei sentimenti, ma l’averli falsificati. Nella musica romantica le emozioni erano create ad arte, il loro succedersi o entrare in contrasto era regolato dai principi di una forma (la forma-sonata essenzialmente), che stabiliva come i temi dovessero susseguirsi e mescolarsi. Non solo: ma stabiliva anche la successione dei climi emotivi, da un drammatico o affermativo Allegro ad un meditativo Adagio, generalmente nella forma A-B-A, a un Minuetto (Scherzo, a partire da Beethoven), a un altro Allegro in forma di rondò. Gli inconvenienti sono due: innanzitutto il movimento più importante, per complessità e spessore emotivo, risultava il primo, per cui la sinfonia si strutturava come una sorta di diminuendo d’espressione. In secondo luogo, la seconda parte dell’opera rischiava di essere incongrua alla prima: dopo il drammatico Allegro e il meditativo o doloroso Adagio, “immaginiamo”, scrive Kundera, “che tutti i grandi sinfonisti, compresi Haydn e Mozart, Schumann e Brahms, dopo aver pianto nei loro Adagio, si travestano, nell’ultimo movimento, da scolaretti e si precipitino nel cortile della ricreazione per ballare, saltare e gridare a squarciagola che tutto è bene quel che finisce bene”. Di fatto ogni compositore finì per rimediare al problema strutturarando le sue sonate e sinfonie secondo una forma propria, caratteristica di quell’opera e non più ripetibile: Beethoven le provò tutte, dalla forma “aforistica” della Sonata op.111 al coro che irrompe nel finale della Nona. Ma anche il “classico” Brahms fu costretto a concludere la Quarta con una Passacaglia.
Glenn Gould si spinse ancora oltre nella critica e sostenne che la forma-sonata, con la sua contrapposizione fra primo tema “maschile” e secondo tema “femminile” aveva rappresentato un impoverimento, una semplificazione rispetto alle possibilità della “variazione continua” tipica delle forme del Seicento, in primis la fuga. Coerentemente, escluse dalla sua lista di compositori preferiti tutti gli autori vissuti fra Bach e Wagner ed elesse a proprio autore prediletto Orlando Gibbons.
Noi oggi abbiamo storicizzato ed interiorizzato queste cose, ma un musicista di fine Ottocento e di area non tedesca era non di rado imbarazzato da questi problemi, nonché dal contrasto, all'interno di uno stesso pezzo, fra parti "ispirate" e parti frutto di esigenze della forma. Così Musorgskij, davanti alla partitura della Seconda di Schumann, indicò lo sviluppo del primo movimento e disse: "Qui comincia la matematica musicale".
Certo è che a un certo punto si cominciò a sacrificare la forma alle intenzioni espressive, fino alle dilatazioni di Mahler. Ma, malgrado tutto, rimaneva l’esigenza di dare alla Sinfonia e alla Sonata, ed ancor più ai singoli movimenti, un assetto unitario. La Quinta di Mahler, che comincia con due tempi drammatici e continua con uno zuccheroso ed uno fintamente sereno, dopo la gigantesca parentesi di uno Scherzo selvaggio e rutilante, si beccò da un suo analista l’appellativo di “mostro spirituale”.
Dove voglio arrivare? A Janacek. Janacek nutrì verso le convenzioni formali ed espressive dell’Ottocento una ripulsa pari a quella di Verdi per le convenzioni del teatro musicale. Come Verdi, voleva qualcosa che fosse più vicino alla realtà. Studiò appassionatamente il canto popolare moravo, ma non solo: trascrisse in note le inflessioni delle parole e delle frasi della lingua ceca, e perfino i suoni e i rumori della strada. Come Mussorgsky, voleva inventare il realismo in musica: ma, da artista del Novecento, voleva procedere in modo scientifico. E così inventò una musica dove il succedersi e il sovrapporsi delle emozioni seguiva un percorso simile a quello di un flusso di coscienza: nostalgia, felicità, furore, pace rotolavano l’uno dentro l’altra, s’alternavano ed arrivavano perfino a sovrapporsi. Perché il flusso di coscienza musicale, diversamente da quello verbale, ha la possibilità del contrappunto emotivo. Alla fine della Sinfonietta, la fanfara iniziale degli ottoni ritorna in una veste trionfale, ma gli archi le si sovrappongono con un disegno che ricorda delle grida confuse d’uccelli, uno stridere disperato e vivace. L’effetto è quello di un pandemonio di emozioni contrastanti. Per rendere l’idea, qualcosa di simile al tumulto che dovettero provare gl’italiani dopo la Liberazione e alla fine della guerra, quando la gioia per la fine del fascismo si mescolava al pianto dei morti ammazzati. E’ come se il trionfo fosse conseguito a prezzo di tanti dolori, come se dietro l’ora della festa già si presentisse la fatica della vita che verrà. E non è così che succede, infatti, nella realtà? Quante volte riusciamo a dare un nome preciso a un sentimento, sì che alla parola “nostalgia” corrisponda una e una sola emozione? Quante volte riusciamo ad isolare un sentimento o a tenerlo fermo nel tempo? Forse soltanto quando siamo innamorati per la vita: e difatti c’è chi dice che si ama una volta sola. Ma quante volte proviamo un’emozione sola alla volta? Non somiglia il nostro flusso emotivo a quello di Janacek piuttosto che al primo movimento dell’Eroica? La sfida di Janacek consistette nel donare all’arte delle forme che anziché essere costruite… ad arte, rispecchiassero fedelmente la realtà. Per questo creò melodie che imitavano le cadenze della lingua parlata, i rumori della vita quotidiana, e le dispose in un ordine apparentemente caotico, ma in realtà regolato dal rigore del suo spirito d’osservazione e di penetrazione psicologica. Per questo scrisse una Sinfonietta e non una Sinfonia, una “rapsodia sinfonica” (Taras Bulba) e non un poema sinfonico, un Concertino e non un Concerto… Fin dove poté, evitò le forme tradizionali: la sua Sonata più celebre, intitolata Dalla strada, è in due movimenti, uno impetuoso e uno contemplativo, proprio come la 111, la Msa Glagolskaja somiglia a tutto, tranne che a una Messa tradizionale. Il maggiore impegno lo profuse nella lirica, che gli offriva possibilità realistiche inedite. Usò il Quartetto per sperimentare una sua versione della forma ciclica basata sul ritorno ossessivo di alcune cellule motiviche (emblematico è il titolo del primo Quartetto, La sonata a Kreutzer, che si rifà al romanzo di Tolstoi sulla gelosia omicida). Scrisse sempre “musica a programma”, ispirata alla letteratura slava (Taras Bulba è il protagonista di una novella di Gogol’) e addirittura a fatti di cronaca (la sonata Dalla strada “racconta” la morte di un operaio durante una sommossa). Tutto, in lui, era regolato in funzione espressiva. Nelle composizioni orchestrali, sono sempre poche le linee strumentali che si sovrappongono. Non c’è nulla di riempitivo. Solo ciò che è espressivo ha diritto di cittadinanza nella sua musica. Fu un espressionista nel senso etimologico della parola, ma un espressionista che seguì una strada tutta sua. Anziché quella dell’allucinazione, quella di un realismo perseguito con ostinata pervicacia. Nonj c'è da stupirsi che questo compositore nato nel 1858 scrisse i suoi primi lavori importanti solo ad inizio Novecento, e che -caso unico nella storia della musica, credo- conobbe la sua massima vitalià crativa negli anni Venti, morendo incidentalmente a settant'anni (1928) con una discreta quantità di opere incompiute sul tavolino.
C’è una sua cantata per coro, I settantamila (CD Naxos), ispirata se non erro alla vita dei lavoratori di una cava, che è tutto un rigurgito di grida, richiami, onomatopee… qualcosa che ricorda lo Janequin di La guerre. Anche Janequin fu un artista onomatopeico, e per questo fu sempre trattato come un minore dall’idealismo che andava per la maggiore.
Naturalmente qui si pone il problema di quanto l’arte possa avvicinarsi alla vita senza distruggersi. Per il Beethoven della Pastorale “ogni pittura in musica, portata troppo avanti, si perde”, e la sua Sinfonia doveva essere “più un’espressione del sentimento che una descrizione”. Janacek parte da presupposti contrari e la sua musica è deliberatamente onomatopeica: come se tutta la sua opera discendesse dal canto d’uccelli o dal temporale che nella Pastorale erano solo episodici.
Per me (e sottolineo che si tratta di una mia idea personale) si apre qui un altro capitolo, quello della parentela, o meglio del rapporto speculare tra l’onomatopea di Janacek e il Naturlaut mahleriano. Il Naturlaut, in effetti, è una “voce della natura” che entra in un discorso altamente stilizzato, e, a ben guardare, è altamente stilizzata anch’essa. Ha il valore di un simbolo, di un presagio, di un ideogramma spirituale. E’ la chiave di volta del complesso rapporto in Mahler tra mondo terrestre e mondo celeste, tra concretezza ed astrazione, che Quirino Principe ha analizzato così bene.
Ma forse i problemi che ci stiamo ponendo sono oziosi. Janacek ha dimostrato che si può fare della grande arte onomatopeica, e porsi il problema di se l’onomatopea può diventare grande arte fa parte di quella fissa di noi occidentali per cui conta solo ciò ch’è “spirituale”, “astratto” ed “essenziale”. Forse dovremmo iniziare a pensare che l’ “essenziale” è molto più ricco, più ridondante e più sporco di quanto abbiamo creduto fino ad ora. Che, a procedere sempre e comunque per sottrazione, si rischia di rimanere senza niente in mano.
Forse, se Janacek non fosse rimasto sconosciuto per così tanto tempo, la sua opere sarebbe diventata la base di una rivoluzione nel modo di concepire l’arte musicale: una rivoluzione diversa da quelle coeve. Janacek aveva affrontato il problema in un modo primitivo, radicale, e solo la sua genialità in effetti aveva potuto risolverlo in grandi creazioni di musica. Magari, a quest’ora, saremmo un po’ più avanti lungo la strada indicata da Janacek… se qualcuno l’avesse continuata.
Scusate la logorrea, ma voi mi sfidate... e io rispondo.