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Dmitrij Dmitrievič Šostakovič

Ultimo Aggiornamento: 01/02/2008 16:14
16/01/2008 22:52
 
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Topic dedicato al grande Pietroburghese, Дмитрий Дмитриевич Шостакович


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Insomma, è tremendamente difficile parlare di musica. Io mi lascio ancora catturare dall’emozione della musica. E se qualcosa mi emoziona o mi dà allegria, sono contento. (Dmitrij Dmitrievic Shostakovic 17/10/1965)
16/01/2008 22:58
 
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grande shostacovich!
non sono un esperto ma senz'altro mi piace moltissimo!

stupende le sue incisioni dei suoi 2 concerti...

la cosa che trovo sempre presente nelle sue composizioni è l'umorismo: quasi una parodia dell'armonia classica...
cosa strana però se messa in relazione con la sua vita personale che non fu delle più felici, spesso affogata nell'alcool e nel fumo



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PRESIDENTE DEL COMITATO PER L'ABOLIZIONE DI CRAMER
17/01/2008 23:43
 
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Re:
volodya, 16/01/2008 22.58:

grande shostacovich!
non sono un esperto ma senz'altro mi piace moltissimo!

stupende le sue incisioni dei suoi 2 concerti...

la cosa che trovo sempre presente nelle sue composizioni è l'umorismo: quasi una parodia dell'armonia classica...
cosa strana però se messa in relazione con la sua vita personale che non fu delle più felici, spesso affogata nell'alcool e nel fumo




uh? Shostakovich alcolista che annega i suoi dispiaceri mi è nuova...sicuramente ne ha passate, ma specificatamente questi episodi non li ho mai sentiti...per quel poco che so dal documentario "sonata per viola", molto ben fatto, e dall intervista a Rudolf Barshai suo allievo...tu dove l hai sentita?

mah allegria, mica tanto...si capisco quello che vuoi dire ma in molti casi questa è proprio assente, un es.su tutt il famoso ottavo quartetto , zublime...anzi ricordo che proprio sul doc che lui diceva una cosa tipo "la musica non puo esprimere solo la bontà e la gioia perche la vita è anche dura e triste" (mi si perdoni l approssimazione ma il succo era questo).



"Non ho bisogno di consigli sull'archetto perchè ho comprato assieme al violino un libricino che spiega tutto su come manovrarlo."
18/01/2008 00:24
 
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Ecco la mia celeberrima tesina di maturità su shosta:D
Volodya banalizzi, clausci sbagli di grosso :D. E l'incisione di shosta dei suoi due concerti fa CACARE ;)




STALIN E ŠOSTAKOVIČ
-Rapporto tra cultura e potere nella Russia dello Stalinismo-







INTRODUZIONE
Il Novecento è stato un secolo denso di avvenimenti e trasformazioni di amplissima portata, in ambito politico come in quello scientifico e sociale, e non da ultimo in quello artistico. Attraversato da due conflitti combattuti su scala mondiale, ha visto tramontare idee e credo vecchi di secoli, ha portato l’uomo ad indagare quanto mai profondamente la propria natura, ha conosciuto trasformazioni ingenti e radicali verificatesi nell’arco di pochissimo tempo, a velocità inimmaginabili, una corsa continua, a perdifiato verso il futuro ed il progresso che ha lasciato lungo il proprio cammino un’infinita scia di vittime, perlopiù innocenti; è stato il secolo delle grandi masse, dei regimi totalitari, della globalizzazione, delle comunicazioni su scala planetaria, ma anche quello delle utopie fallite, del ripiegamento su se stessi, dell’emarginazione di artisti ed intellettuali, delle illusioni e dell’effimero. L’essere umano, motore della storia (una storia che ancora viveva del fiducioso lascito giustificazionista di tradizione romantica ed idealista), sempre più lontano dall’immagine razionale in cui si era identificato nell’Ottocento degli Hegel, degli Spencer, dei Marx, si è scoperto un animale mosso dall’istinto, dal desiserio di gloria, dalla sete di potere, votato esclusivamente alla celebrazione del proprio ego, espressione delle più orrende e bestiali pulsioni irrazionali, in definitiva estraneo a se stesso. E non è allora un caso che sia stato il secolo di Freud, un secolo veramente “malato”, contraddistinto da un’infinita serie di degenerazioni individualiste, in cui da una parte l’intellettuale, perso il ruolo di vate e profeta, si è isolato nella propria indagine interiore, nella mistica, nell’ascesi; dall’altra figure intraprendenti (o meglio prive di scrupoli) hanno preso in mano le redini della storia stritolandola con il proprio peso e governandone il corso in abito di semidivinità, senza che però questo impedisse loro di suscitare plausi diffusi, ed un coinvolgimento popolare in dimensioni mai prima conosciute: entrambe furono risposte noi crediamo, per quanto diametralmente opposte, ad una sempre più consapevole perdità di identità dell’individuo, alla sua crescente estraneità alla realtà circostante, alla definitiva sconfessione di qualsivoglia ideale positivista. Ed è qui il nodo cruciale che stringe saldamente il legame, così peculiare del secolo appena trascorso, tra cultura e potere; perché l’artista (quando non si sia esiliato nella celebrazione autoreferenziale della propria opera, comune a tanti sterili sperimentalismi novecenteschi) spinto dal timore di essere lasciato da parte nel sempre più veloce progresso della storia, ha ritenuto di dover compromettere il proprio sapere con la quotidianità e con il contingente, in definitiva con la politica (il che, si badi, non è cosa negativa a priori: compromissione con il politico non significa necessariamente adorante sottomissione al potente di turno); il potere d’altra parte, in tutte le sue forme, si è accorto del ruolo fondamentale di propaganda che l’artista e l’intellettuale, riscoprendo (anche forzatamente) il contatto con le masse, potevano ricoprire nell’ottica della costruzione di un’adesione totale, da parte dell’oggetto politico, nei confronti del soggetto politico. Ci pare d’altra parte inutile sottolineare come entrambi questi atteggiamenti si manifestarono in una infinità di sfumature ed indirizzi, sia sotto il profilo pratico che sotto quello ideologico (oseremmo dire etico). Si è scelta allora, per trattare più approfonditamente e senza rischi di dispersione la materia, una figura emblematica della natura e delle conseguenze nel rapporto cultura-potere poco sopra accennato: il compositore russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič (di cui recentemente è ricorso il centenario dalla nascita); egli attraversò nella sua vita di uomo ed artista il lungo e tragico trentennio staliniano, il quale segnò profondamente la sua psiche e la sua opera tutta, nei modi che si vedranno. Prima però di affrontare il discorso più specifico, occorre introdursi alla materia trattando brevemente gli antefatti culturali, storici e sociali della Russia primonovecentesca.

BREVI CENNI STORICO - SOCIALI
La Russia prerivoluzionaria di Nicola II doveva apparire come un relitto del passato agli occhi degli Europei. Economicamente arretrata, vedeva dal punto di vista sociale una popolazione nettamente suddivisa tra l’aristocrazia latifondista e un’ingente massa di contadini priva di diritti ed analfabeta. In quello stesso periodo stava però crescendo e sviluppandosi nelle città una classe operaia, sorta di primigenio proletariato di derivazione contadina che, cercando rifugio da una perenne situazione di crisi economica, ma animato al contempo da un forte attaccamento patriottico, all’emigrazione aveva preferito il trasferimento verso le due grandi zone di concentrazione industriale Russa, Mosca e, soprattutto, Leningrado. Tale nascente classe operaia tuttavia, rispetto alle omologhe Europee, appariva non essersi integrata del tutto nel nuovo contesto sociale, risultando così ancor più profondamente legata al mondo contadino di origine; fu solo attraverso la propaganda dei settori estremisti e rivoluzionari che prese a svilupparsi in essa negli anni di passaggio tra Ottocento e Novecento una “coscienza di classe” (si rilevi qui un carattere tipico della storia Russa ovvero quello d’un riformismo tradizionalmente imposto dall’alto); al contrario, le masse contadine rimasero costantemente (anche caduto lo zarismo) avverse alla propaganda partitica, dapprima esprimendo una totale fiducia nei confronti delle istituzioni assolutistiche, in seguito opponendosi alla requisizione statale della proprietà privata, diritto faticosamente guadagnato e a costi elevatissimi.
Non è nostro interesse snocciolare a questo punto la serie di eventi e concause che, nel giro di un decennio, portarono all’affermazione del socialismo in Russia (ci limiteremo a sottolineare come la Rivoluzione Russa sia da considerarsi l’evento principe della storia del Novecento, dal punto di vista culturale, poiché presentatasi come inveramento di un sistema filosofico, politico - considerando che i grandi totalitarismi di destra nacquero fondamentalmente come risposta al timore che il processo rivoluzionario si estendesse alle masse proletarie europee - e, naturalmente, sociale); interessa piuttosto identificare il ruolo che in tali avvenimenti ebbe l’ inteligencija, di cui Šostakovič fu esemplare esponente e nel cui profilo perfettamente si inserisce il significato vero e profondo della sua opera.


L’ INTELIGENCIJA
Identificare l’inteligencija come la “classe intellettuale” Russa non è cosa del tutto scorretta, tuttavia conduce a commettere errori di interpretazione sul suo ruolo più strettamente sociale, nei quali è bene premurarsi di non incorrere. In Europa la borghesia è ed è sempre stata classe “intermedia”, a metà strada tra aristocrazia e classi popolari (per una questione banalmente di reddito). Emersa dal tessuto sociale come classe economicamente definita, da circa trecento anni, ai primi del Novecento dominava la realtà sociale, politica ed economica del mondo Occidentale. Erede ben più gradita alle masse di quell’aristocrazia all’ombra e in avversione della quale si era accresciuta e rafforzata, così appariva agli occhi degli Europei: una classe ricca, pragmatica, seno da cui era emersa l’intellettualità sette - ottocentesca, non da ultimo detentrice del potere politico nelle forme del liberalismo. In Russia fu, per lo più, tutto il contrario: causa principale ne era stato che la neonata borghesia Russa fosse ben più povera di quella Inglese, Francese o anche Italiana, essendo nata come piccola proprietà terriera allorché fu abolita la servitù della gleba, un cinquantennio prima. Il contatto e il legame, anche solo ideale, con le masse povere e i contadini, la compassione per le loro sofferenze fu dunque elemento sempre centrale nella visione del mondo che la contraddistinse: l’inteligencija non mirava al potere, al dominio economico, ma alla affermazione di una concezione egualitaria e più democratica della società, e in linea con le tendenze occidentali contemporanee. Dato lo scarso livello di preparazione culturale della corona, dei funzionari che per quella operavano e, più in generale, di tutta l’aristocrazia (ecco un’altra differenza rispetto alla situazione europea) e data l’impossibilità materiale di affermare la propria identità di classe emergente attraverso una emancipazione economica (parallela poi alla volontà di porsi élite a guida delle masse impoverite) divenne quasi necessario puntare sullo sviluppo di una istruzione progredita e quanto più possibilmente aggiornata alle tesi progressiste portate avanti in quegli anni in Europa.
Lo scontro con l’aristocrazia fu inevitabile: culturalmente inferiore e politicamente reazionaria, di fronte ad una borghesia dinamica, colta e progressista, le impedì ogni accesso al potere, rigettò ogni sua pretesa e richiesta, provocando per una parte di essa, a fine ’800, un definitivo spostamento ideologico verso le ali più estremiste dell’allora nascente realtà partitica Russa (ancora del tutto operante in clandestinità). L’inteligencija si presentava così propriamente spaccata in due settori, connotati da diverse tendenze e ispirazioni: da una parte un’area (rappresentata da una ristretta minoranza) più politica e radicale, fino alle forme estreme del terrorismo (fu il settore che al più presto tentò di coinvolgere le masse contadine in processi insurrezionali e, di fronte al rifiuto di queste - paradossalmente fiduciose nell’operato in loro favore dello zar e fatalmente convinte della sovrannaturale immortalità dell’istituzione che rappresentava - adottò il progetto di una Rivoluzione imposta terroristicamente, che coinvolgesse gli strati popolari senza però nascere spontaneamente da essi; fu questo in sostanza il “colpo di Stato” bolscevico del ’17); un’altra area più “intellettuale”, ampia e moderata, positivamente coinvolta nelle limitate aperture e concessioni di Nicola II, seguite agli avvenimenti del ’5, in quanto a partecipazione popolare nella vita politica e pubblica Russa (con un parziale allentamento della censura, il libero accesso degli intellettuali al pubblico impiego, e così via). Tale divisione interna all’inteligencija si prospettò nei termini di un dialogo conflittuale per tutta la storia della Russia Rivoluzionaria e post-Rivoluzionaria, determinando lo scontro tra l’élite culturale liberale e l’ambiente ora gravitante attorno al partito socialista, sempre mosso da ammirazione mista ad invidia nei confronti dei vari Šostakovič, Pasternak, Evtushenko, figure loro sì capaci di di sviluppare un contatto autentico con le classi popolari. Eternamente i leaders del partito socialista cercarono di coinvolgere le schiere degli intellettuali nel processo Rivoluzionario, allo scopo di sottolinearne e valorizzarne i contenuti ideali e ottimistici (progetto che sostanzialmente fallì). È in tali termini che si delineò il rapporto, che starà a noi evidenziare, tra cultura e potere sotto lo Stalinismo, allorché l’Arte fu costretta ad immergersi nella storia e la politica pretese di imporle i propri schemi: i risultati, si vedrà, saranno i più inaspettati. È in questo quadro di una inteligencija visceralmente legata al mondo proletario (al punto spesso da sentirsi investita del compito di guidarlo verso l’ottenimento di maggiori diritti e migliori condizioni economiche e di vita e dunque connotata da un forte afflato moralistico nella propria concezione del mondo, da Dostoevskij a Pasternak e altri) che si colloca il profilo di Šostakovič e della sua famiglia.










VITA DI UN ARTISTA SOTTO LO STALINISMO
Gli antenati del padre Dmitrij Boleslanovič provenivano dalla Polonia; questi, impiegato presso l’Istituto pesi e misure fondato da Dmitrij Mendeleev (quello della tavola periodica), sposò a San Pietroburgo (poi Leningrado) nel 1903 Sofja Vasilievna Kokoulova, studentessa di pianoforte al Conservatorio della città. La famiglia Šostakovič apparteneva alla nuova borghesia che in quel periodo che in quel periodo si affacciava alla vita sociale in Russia, mostrando un atteggiamento critico rispetto alla politica repressiva del regime zarista e di aperto sostegno alle vedute dell’inteligencija; viveva agiatamente e senza pretese. Dal matrimonio nacquero due figlie, Marija (nel 1903) e Zoja (nel 1908) e il figlio Dmitrij, venuto alla luce il 25 settembre 1906. Questi fu all’età di 9 anni avviato dalla madre, come le sorelle, allo studio del pianoforte. Dmitrij in particolare dimostrò di possedere precipue doti musicali e mnemoniche, e prese presto ad improvvisare e a comporre. Fu così che nel ’19, a soli tredici anni, fu accettato ai corsi superiori di composizione del Conservatorio di San Pietroburgo, nella classe di Maximilian Steinberg. Nel ’21, a causa degli oneri conservatoriali, abbandonò del tutto gli studi scolastici per dedicarsi esclusivamente alla musica. Le sue due prime composizioni, risalenti al ’17 e intitolate “Marcia funebre per le vittime della Rivoluzione” e “Inno alla libertà”, rispecchiavano la sincera ma un po’ retorica visione da parte di un giovanissimo inteligent degli eventi Rivoluzionari che ebbero per teatro proprio San Pietroburgo.
Durante gli anni della guerra civile la famiglia conobbe il razionamento di cibo e beni di prima necessità; il padre di Dmitrij morì improvvisamente di malattia nel ’22 e il giovane Šostakovič si sentì da quel momento investito del ruolo di capofamiglia. Il che produsse in lui una certa qual “sensibilità” nei confronti della questione economica (non mancò mai di provvedere al sostentamento di madre e sorelle, in questo inizialmente aiutato dalle copiose borse di studio elargitegli dal direttore del conservatorio Glazunov, che in lui riponeva grandi speranze). Il forte e stretto legame con la madre fu una costante di tutta l’esistenza di Šostakovič fino alla di lei morte avvenuta nel ’45.
Il giovane compositore amava la musica di Čaikovskij ed il balletto; era poi grande ed appassionato lettore della letteratura Russa, in particolare di Čecov. Il boicottaggio di alcuni compagni invidiosi del suo talento portò nel ’24 alla sospensione dell’introito dovuto alle borse di studio, sicché dovette prendere a lavorare nei cinematografi accompagnando al pianoforte film muti, occupazione ripetitiva che presto gli risultò odiosa, ma che però sviluppò in lui una incredibile capacità di rappresentare drammaticamente immagini nitide, quasi tangibili attraverso la musica. In quegli stessi anni Šostakovič manifestò le prime insofferenze nei confronti dell’ambiente musicale leningradese, estremamente tradizionalista ed accademico, sviluppatosi nell’illustre eredità d’un grande quale Rimskij Korsakov, ma troppo chiuso ed arretrato rispetto a quello Moscovita, estremamente dinamico ed aggiornato alle contemporanee innovazioni e tendenze di matrice francese e tedesca (lo stesso Prokof’ev, anch’egli Leningradese, era cresciuto e si era affermato come compositore fuori della patria).





NASCITA, MORTE E RINASCITA DI UN COMPOSITORE: ’24-37
Primo cruciale avvenimento nella vita di Šostakovič come compositore fu l’esecuzione, il 12 maggio del ’26 a Leningrado, sotto l’attenta direzione di Nikolaj Malko, della sua Iª Sinfonia, scritta nei due anni precedenti ed intesa come saggio per il diploma di composizione. Le autorità musicali Leningradesi erano restie a concedere tanta attenzione ad un giovane e sconosciuto compositore, e tuttavia si dovettero ricredere di fronte all’enorme successo che questo piccolo capolavoro seppe riscuotere (paragonabile per certi versi a quello che, quasi centocinquant’anni prima, aveva riscosso Beethoven con la sua Iª Sinfonia): al contempo tradizionale ed innovativa, in quattro movimenti, si presentava come un’opera per alcuni versi ancora incerta e frammentaria (si ha spesso la sensazione che il compositore non sappia dove vuole andare a parare, e la gamma emotiva messa in campo è confusa e oscillante, a volte diremmo “fuori posto”), ma già cosciente erede della lezione Stravinskijana, non lontana in certe soluzioni e nella generale economia di mezzi musicali da quella del Prokof’ev neoclassico; soprattutto colpiva l’efficacissima orchestrazione, capace di sottolineare magistralmente gli aspetti più ironici e grotteschi come quelli più lirici ed effusivi del variopinto materiale musicale.
Šostakovič si trovò di colpo proiettato con la sua musica nelle stagioni concertistiche di tutta la nazione, e il suo nome si fece strada fin persino in Europa. I suoi introiti aumentarono a dismisura ma, al contempo, si trovò prematuramente inserito nelle maglie propagandistiche del partito, che proprio nel ’26 aveva visto l’assunzione della leadership da parte di Stalin, dopo i due anni di lotta interna per la conquista del seggio lasciato vuoto dalla morte di Lenin. Se nel complesso il nuovo leader non intendeva attuare bruschi cambiamenti di rotta rispetto all’operato del defunto fautore della Rivoluzione (anzi il primo biennio dello Stalinismo si caratterizzò fondamentalmente per una ripresa fedele delle politiche economiche e sociali dell’ultimo Lenin, almeno fino alla crisi del ’29), pure Stalin intese fin da subito porre l’accento su una sua (vera o presunta che fosse) attenzione peculiare nei confronti delle arti, almeno tanto quanto il suo predecessore aveva ostentatamente predicato la propria avversione nei confronti di un’élite culturale a suo dire tutta intenta a cantare mondi astratti e realtà fumose, lontane dalle reali necessità delle masse proletarie; pure, tra i membri alla testa del partito bolscevico si era fatta strada la convinzione che fosse necessario, anzi indispensabile, coinvolgere l’inteligencija nel sistema propagandistico, facendole fare quanto più possibile da tramite di messaggi politici verso la popolazione, diffidente verso un partito che, dopo gli eventi Rivoluzionari, non aveva dato più alcun segno tangibile di rinnovamento o progresso nella vita politico-economica Russa.
Cruciale fu allora, nel ’27, il Primo concorso internazionale di piano “Chopin” di Varsavia. Stalin amava opera e balletto, e nemmeno disprezzava la musica strumentale; prestava inoltre particolare attenzione al successo internazionale dei giovani musicisti sovietici: era questa l’occasione perfetta per presentare alla stampa Occidentale, debordante di materiale sui bolscevichi descritti come barbari ed ignoranti, un’immagine diversa di una Russia che si spendeva per le arti e teneva al proprio profilo culturale; e nulla c’era di meglio che presentare giovani esecutori Russi, patrocinati dal partito, che eseguivano brillantemente musica Occidentale ad un concorso tanto importante (che probabilmente avrebbero dovuto vincere). Se la delegazione russa ottenne complessivamente grande successo (Lev Oborin, leningradese, ottenne il primo premio), per Šostakovič, anche lui membro del gruppo selezionato per partecipare a Varsavia, il concorso (chiusosi in maniera ben peggiore delle sue aspettative) segnò la fine della sua carriera come concertista, e la conseguente decisione di dedicarsi solo più esclusivamente all’ambito della composizione. Proprio nel ’27, la sessione propaganda del Dipartimento musicale dell’Editrice di Stato gli commissionò un’opera sinfonica per le celebrazioni del decennale della Rivoluzione: il risultato fu la IIª Sinfonia “All’ottobre”, strano lavoro modernista e ipersperimentale, almeno fino al suo patriottico finale corale composto sulle parole del poeta “proletario” Bezymenskij. Questo opus, sgraditissimo a Šostakovič per l’imposizione di testi a lui tutto fuorché congeniali e di scarsa qualità fu, come la Terza Sinfonia “Primo Maggio” (anche questa commissionata, nel ’30, dall’Editrice di Stato), sfruttata come campo di prova per sperimentazioni compositive, in alcuni casi oseremmo dire estreme, che ampliassero il campo delle possibiltà espressive in vista di opere d’impianto sinfonico ben più importanti ed emotivamente sentite.
In quegli stessi anni Šostakovič conobbe Ivan Sollertinskij, filologo, linguista, esperto di filosofia, storia dell’arte e teatro, che lo introdusse all’arte di Bruckner e, soprattutto, Mahler, la cui sempre più approfondita conoscenza tanto influenzò la produzione successiva del compositore (basti ricordare che una volta Prokof’ev ebbe a chiamare Šostakovič “il nostro piccolo Mahler”): in che modo e misura si vedrà sotto, allorché approfondiremo l’ambito più strettamente musicale dell’opera di Šostakovič. Fu solo Sollertinskij, critico musicale che mai si allineò con le direttive partitiche in anni di ferocissima censura, ad appoggiarlo nell’idea di comporre un’opera sul testo comico di Gogol “Il naso”, il cui curioso intreccio, antefatto dell’assurdo letterario novecentesco (narra infatti le disavventure dell’impiegato pietroburghese Koval’ev, il cui naso scompare misteriosamente, per riapparire poi per le vie della capitale sotto forma di un impiegato di grado superiore, infine tornando al suo posto dopo numerose vicissitudini), doveva aver stimolato la creatività del Nostro, a lungo incanalata nella creazione di opere imposte e mal riuscite. Qualcuno ha tentato di vedere nel Naso (che fu criticato e liquidato sui giornali, dopo la prima tenutasi il 18 gennaio del ’30, come uno “scherzo senza senso” o “una brutta smorfia”, e ciononostante ebbe in un arco di 6 mesi il consistente numero di sedici repliche - tutto fuorché un fiasco insomma) la prima decisa affermazione di un compositore che, liberatosi dalle redini del partito, si presentava un outsider in lotta con il potere politico, dimostrando compassione per un mondo borghese in decadimento in un’opera “inutile” al popolo, avvalendosi tra l’altro nella stesura del libretto dell’aiuto del “provocatore” Evgenij Zamjatin (che, in conclusione al suo manifesto letterario “Ho paura” affermava: «Temo che la letteratura russa abbia un solo futuro: il suo passato», frase inconciliabile coi programmi di un partito che presentava l’immagine d’una Russia in eterna cavalcata verso il futuro ed il progresso nelle arti, nella letteratura, in economia, ecc. ecc.). In questo modo si rischia di forzare e snaturare, come poi in altri casi, il senso della musica di Šostakovič, esattamente come fanno i detrattori che continuano a descriverlo come un uomo asservito al potere, fedele lacché di Stalin prima, di Cruš’ev poi. In realtà, era questa l’opera d’un giovane artista con le idee poco chiare, che ancora stava cercando il suo modo di esprimersi in musica, aperto ad ogni sperimentazione, disinteressato alle questioni politiche, men che mai fautore dell’“arte per il popolo” (la lasciava alla folta schiera di compositorucoli allineati che lo circondavano), esponente dell’inteligencija liberale, e che dunque si sentiva a suo agio nel rappresentare una realtà borghese un po’ disorientata com’era quella del Naso di Gogol.
Ed estremamente disorientata doveva essere l’inteligencija di fronte ai recenti provvedimenti Staliniani: fu nel ’28 dato inizio al progetto di collettivizzazione e industrializzazione delle campagne, e di fronte alle proteste dei piccoli proprietari si rispose con una massiccia deportazione nei gulag siberiani (tale provvedimento, tra morti di stenti nei campi di lavoro, carestie dovute all’impossibiltà di gestire lo sforzo organizzativo della nazionalizzazione e alla mai rientrata opposizione dei contadini che si erano visti privati delle loro proprietà, provocarono nel giro di pochi anni circa 20 milioni di morti); parallelamente fu avviato il primo Piano quinquennale per lo sviluppo che si rivelò, come tutti quelli che lo seguirono negli anni a venire, sostanzialmente fallimentare.
L’Arte (particolarmente il cinema) ebbe un ruolo centrale nel celebrare i (presunti o meno) risultati sovietici, soprattutto nell’industria (che effettivamente raggiunse i livelli quantitativi delle produzioni Occidentali), proponendo le immagini di campioni del lavoro come l’operaio Stachanov. Nel ’32 poi il partito assunse il controllo della vita culturale sovietica sciogliendo le organizzazioni proletarie delle arti (che negli anni ’20 avevano acquisito sempre maggior potere, facendosi portavoce del Partito, ostacolando e umiliando gli intellettuali - ad esempio nel ’31 il balletto “Il bullone” di Šostakovič fu ritirato dopo la prima a seguito delle proteste proprio delle associazioni proletarie) e costituendo le “Unioni dei lavoratori della cultura” (scrittori, compositori, registi, ecc.), che presto assunsero il ruolo di tramite diretto del Partito per il controllo della produzione intellettuale, attraverso la diffusione a tutti i livelli della cosidetta estetica del realismo socialista, attorno a cui gravitò la discussione delle arti sotto lo Stalinismo; secondo la definizione dell’allora consulente culturale di Stato Maksim Gor’kij, «Il realismo socialista […] esige dall’artista una descrizione veritiera, storicamente concreta della realtà nel suo sviluppo rivoluzionario. Nel contempo, la veridicità e la concretezza storica della descrizione artistica della realtà devono coesistere con lo scopo del cambiamento ideologico e dell’educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo». Una definizione volutamente laconica e tautologica, volta a determinare un controllo sugli artisti e, quanto più possibile, un loro asservimento al partito. Se infatti tale definizione avesse assunto un profilo più chiaro, sarebbe stato ben facile da parte di musicisti e scrittori mettersi al riparo assecondando richieste specifiche di contenuto “popolare” o quant’altro; in questo modo invece, chiunque avrebbe potuto essere sempre ed in ogni caso passibile di una accusa di “formalismo” (anche questo un termine generico, indicante le tendenze di quegli intellettuali che, lontani dalle esigenze del proletariato, si dedicavano ad un esclusivo culto della forma, magari perfino in odore di influenze Occidentalizzanti). Basti citare il caso di Muradeli, compositore di secondo piano e convinto socialista, cui fu commissionata nel periodo postbellico un’opera da comporsi secondo i canoni, appunto, del realismo socialista, e che, presentata agli organi di partito, fu invece presa come modello di musica “formalista” (Muradeli fu persino costretto a pronunciare un discorso di autocritica); spesso capitava poi che Stalin ordinasse da un giorno all’altro la fucilazione di registi o scrittori fino al giorno prima da lui apprezzati o elogiati. Difficile dire se questo fosse un segno di follia o estrema lucidità; sta di fatto che il risultato fu il diffondersi di una costante condizione di insicurezza e la sensazione che il destino dell’uomo fosse «non una partita a scacchi giocata con tutte le regole, ma una lotteria» (secondo le parole di Il’ja Èrenburg): nessuno sarebbe stato in grado di prevedere che reazione avrebbe prodotto la loro prossima opera, la loro prossima dichiarazione; e il conseguente enorme stress psicologico portò ad innumerevoli suicidi e ricoveri in manicomio.
Mentre la campagna “antiformalista” procedeva e si diffondeva (nel ’35 era tra l’altro iniziata la seconda fase del terrore stalinista, seguita all’omicidio di Kirov - di cui lo stesso Stalin fu mandante - e che portò all’esecuzione e alla cancellazione di tutta la retroguardia bolscevica, permettendo un “ricambio” che pose a capo di tutte le istituzioni Russe i nuovi e corrotti uomini del dittatore), Stalin si rese conto della necessità di trovare una “vittima sacrificale”, il cui processo coram populo facesse da esempio dando avvio all’affermazione di un meccanismo secondo cui il “crimine artistico” costituiva in tutto e per tutto un crimine politico, e la parola del partito in ambito culturale diveniva legge.
Ebbene, quella vittima fu Šostakovič con la sua opera “Una lady Macbeth dal distretto di Mcensk” che, in scena da un anno, aveva ottenuto un successo incredibile (in Russia come all’estero) e quasi 100 repliche di costante tutto esaurito. Il 26 gennaio del ’36 Stalin con altri compagni si presentò alla rappresentazione della Lady Macbeth al Bol’šoj di Mosca; non ne attese la fine e uscì dal teatro al termine del 3° atto. Due giorni dopo, sulla Pravda, testata giornalistica dell’organo di partito, uscì un articolo (poi tristemente famoso esempio delle ingerenze della politica nell’arte) intitolato “Caos anziché musica”. Benché non firmato, lo stile secco e tautologico e, soprattutto, digiuno di materia musicale, rimandava nient’altro che a Stalin: qui l’autocrate accusava il compositore di “formalismo piccolo-borghese”, “rozzo naturalismo”, nonché di “decadentismo filo-occidentale”. La vita di Šostakovič fu completamente devastata da questo attacco alla sua musica: le entrate si ridussero drasticamente (le sue opere non venivano infatti più eseguite per timore di ripercussioni), e pochi stretti amici restarono a sostenerlo: i più preferirono accodarsi vigliaccamente ed ipocritamente al coro di detrattori che, “spontaneamente” sorto dal nulla, prese a sottolineare la giustezza di tale giustissimo attacco.
Occorre soffermarsi un istante ad analizzare l’opera in sé. Tratta da una novella dell’autore ottocentesco Nikolaj Leskov, narrava le vicissitudini di Katerina Izmajlova, moglie d’un mercante, che, innamoratasi d’un dipendente di questi, uccideva per amore suocero e marito; scoperto l’omicidio, veniva arrestata ed inviata nei campi di lavoro siberiano, ma durante il viaggio, derisa dai popolani che l’accompagnavano e tradita per un’altra dall’amante in cammino con lei, si gettava con la rivale in un fiume, ove entrambe morivano affogate. Šostakovič ci presentava il tema dell’amore prima di tutto, dell’amore senza limiti, e in questo senso portava lo spettatore a giustificare i crimini di Katerina; di contro il popolo, i lavoratori, il marito, la polizia, l’amante assumevano tutti un ruolo negativo, presentandosi come esseri bestiali, primitivi e meschini. Questo effetto di contrapposizione era magistralmente ottenuto attraverso la musica (sempre di qualità eccelsa): lirica o struggente quando a parlare era Katerina, grottesca, goffa e rumorosa quando a parlare erano gli altri. Molti critici tradussero la vicenda in questi termini:“Il proletario idealista e sensibile - Katerina - viene schiacciato ed oppresso dai borghesi ignoranti e materialista - la polizia, il marito, eccetera”. Una lettura dunque del tutto inseribile nei programmi culturali del partito, chè vi si presentava tra l’altro una serie di omicidi rappresentati come atti di liberazione. Pure l’esplicita sessualità messa in scena nell’opera (scene di sesso, nudi, violenze - i critici americani la definirono senza mezzi termini “pornofonia”) dovette certo notevolmente irritare Stalin, il cui atto di censura, ricordiamolo, fu comunque essenzialmente politico, e non giudicava in realtà il valore arttistico dell’opera in sé.
Šostakovič però, pur essendo una persona estremamente sensibile (e s’era appena visto crollare il mondo da sotto i piedi), coraggiosamente non fece, come molti altri avrebbero fatto in una tale situazione e si sarebbero aspettati da lui, alcun atto di autocritica o pentimento, men che mai una flagellazione pubblica: al contrario, si gettò nella composizione della sua Quarta sinfonia, opera estremamente ambiziosa, Mahleriana nelle proporzioni e nella concezione. Lunga più di un’ora, è un immenso agglomerato solo apparentemente caotico d’un’infinita serie di temi, spesso in nettissimo contrasto tra loro, che vengono presi, rielaborati, connessi, spezzati, stravolti, ricomposti, in un impianto travolgente che viaggia tra la comicità grottesca e l’estrema tragicità, tra contrasti illogici e polifonie distorte. Šostakovič l’aveva concepita come il luogo ove più compiutamente affermare il proprio profilo di compositore maturo e, soprattutto, moderno ed innovativo; fu dunque certamente dolorosa la decisione, presa senza preavviso il giorno della prima (l’11 dicembre del ’36), di annullarne l’esecuzione: se è vero che l’orchestra ed il direttore avevano subito pressioni dal Partito, lo stesso Šostakovič s’era reso conto del rischio di presentare un’opera che senza ombra di dubbio sarebbe stata accusata di formalismo.
Davvero esistono un “prima” ed un “dopo” nell’arte di Šostakovič, e la chiave di volta di tale suddivisione è certo costituita dall’articolo uscito sulla Pravda nel ’36; da quel momento scrisse un’infinità di opere destinate a non essere eseguite (“per il cassetto”, come si suol dire in Russo): non fu mai più veramente in grado di esprimersi liberamente, ogni composizione che diede alla luce fu in misura maggiore o minore influenzata dal “rapporto” che si instaurò tra lui ed il partito di Stalin. Il Nostro, talento genuinamente operistico, dopo le vicissitudini della Lady Macbeth, non scrisse più alcuna opera, concentrando la sua cretaività nelle opere sinfoniche che, in numero di quindici, avrebbero costituito il nucleo della sua produzione. Diversamente da come molti ritengono, non fu questo un ripiego: la forma della sinfonia gli era certo congeniale, e l’arricchì con gli anni di tutta la forza drammatica che non gli era più possibile riservare per opere “testuali”. Eppure, dal ’36 in poi, le confessioni più sincere dello stato d’animo sarà dato trovarle nelle opere minori, soprattutto nei cicli di romanze su testi poetici, si badi, di altri autori.
Ma già nei primi mesi del ’37 il partito cominciò a far pressioni su Šostakovič perché scrivesse un’opera che testimoniasse il suo completo asservimento all’ideologia Socialista; era quello il periodo di massima durezza del terrore staliniano, e il compositore vedeva giorno dopo giorno scomparire ed essere arrestati parenti, amici, conoscenti (egli stesso prese a dormire vestito e con una valigia pronta accanto al letto - un’abitudine che abbandonò solo nel ’53). Dobbiamo allora immaginare la sua tensione alla prima della Quinta sinfonia, dacchè si trattava in tutto e per tutto della resa dei conti d’un artista che non aveva, contro ogni aspettativa, disconosciuto la sua opera accusata di fomalismo. La sala della filarmonica di Leningrado, quel 21 novembre del ’37, era gremita di attivisti del partito. Al termine dell’esecuzione il pubblico si alzò tutto in piedi, prorompendo in un applauso scrosciante (cronache narrano che molti scoppiarono persino in lacrime): era come se tutti stessero dicendo “ha risposto, ed ha risposto bene”; gli amici presenti dovettero trascinarlo via a forza, per impedire che uscisse troppe volte sul palco a ringraziare - Stalin avrebbe potuto prenderlo come un affronto. I critici lo coprirono di elogi, e si affrettarono ad apporre alla sinfonia il sottotitolo “risposta creativa di un compositore ad una giusta critica”.
In sé la Quinta era un lavoro ben più tradizionale rispetto agli ultimi esperimenti di Šostakovič; tuttavia i recenti avvenimenti l’avevano reso capace di caricarla d’una forza emotiva trascinante cui era difficile rimanere indifferenti. Il quarto ed ultimo movimento risultava certo rumorosamente trionfalistico, ma i tre che lo precedevano apparivano piuttosto cupi e pensosi: stupisce il coraggio creativo di Šostakovič, di aver così risposto ad un attacco di Stalin in persona, e stupisce che il partito si sia accontentato di un tale - di fatto - mancato pentimento. Ma probabilmente non osò la politica opporsi al dilagante successo di popolo che la Quinta stava riscuotendo: fu costretta a fare dietrofront e a riammettere Šostakovič nei ranghi degli artisti “accettati”, e fu così che le sue composizioni tornarono ad essere eseguite. Questa volta il compositore, con la sola forza della sua arte, aveva letteralmente sconfitto il grande dittatore.

DALLA GUERRA AL TRAMONTO DELLO STALINISMO: ’38-’53
A riabilitazione avvenuta, Šostakovič fu nuovamente e ripetutamente costretto a lavorare su poco stimolanti e sgradite commissioni del Partito (soprattutto colonne sonore per film patriottici). Intorno al ’40 maturò l’intenzione di srivere una nuova opera, basata questa volta sul testo “I giocatori” dell’autore satirico Gogol, ma, resosi ancora una volta conto del rischio cui andava incontro, abbandonò il progetto per non riprenderlo mai più.
Il 22 giugno del ’41, mentre si trovava allo stadio di Leningrado per seguire una partita di calcio (sport di cui era appasionatissimo), sentì pronunciare dagli altoparlanti l’annuncio che l’“amica” Germania aveva invaso i confini russi, e si dirigeva con il suo esercito verso Mosca, Stalingrado, e Leningrado.
Paradossalmente, l’attacco nazista costrinse le autorità a girare la testa dall’altra parte allorchè l’ inteligencija creativa cominciò a prendersi qualche libertà: il Partito necessitava dell’appoggio popolare, e doveva mostrare un volto umano anche alle nazioni ora divenute d’improvviso alleate, soprattutto Inghilterra e Stati Uniti; e chi meglio di Šostakovič, compositore acclamato in tutto l’Occidente, avrebbe potuto farsi tramite di questa nuova immagine della Russia, coinvolta nella lotta contro l’imperialismo hitleriano? Šostakovič aveva già da tempo in mente di scrivere una nuova opera sinfonica, ma quando seppe dell’attacco delle truppe naziste, si mise alacremente al lavoro, completando in poco tempo la Settima sinfonia, sottotitolata “Leningrado”: mastodontico lavoro di quasi un’ora e mezza, rappresentava negli intendimenti dell’autore il simbolo della resistenza della sua città natale, cui era dedicata; centrale era il cosiddetto “tema dell’invasione” del primo tempo, un blocco in cui il motivo d’una canzone da taverna tedesca veniva ripetuto in una continuo crescendo (à la Bolero di Ravel), trasformandosi da minuto motivetto cantilenato da un singolo flauto a mostruosa e dissonante cacofonia per orchestra: in molti si affrettarono a dirla rappresentazione delle truppe tedesche in avvicinamento, chè questa sinfonia era il segno più nobile d’una Russia che non si arrendeva al nemico, ecc ecc. Un’occasione ghiottissima per il Partito, che si mise letteralmente al servizio di Šostakovič per far sì che l’opera venisse eseguita in ogni parte della Russia e, soprattutto, a Leningrado: l’esecuzione si tenne il nove agosto del ’42 nella città sotto assedio delle truppe hitleriane, e assunse nelle menti dei presenti quasi il valore d’un rito sacro in nome della patria minacciata. Nel fattempo, Šostakovič veniva fotografato sul tetto del Conservatorio, e l’immagine propagandistica di lui in abito da pompiere faceva in poche ore il giro del mondo. (scatenando non poche perplessità)
Šostakovič stesso ebbe a dire in anni successivi che, più che antinazista, quella della Settima era una musica sul terrore, sulla schiavitù, sulla costrizione dello spirito; e non è mancato chi sottolineasse allora l’immagine suggestiva dell’autore dissidente che abilmente aveva dissimulato un messaggio profondamente antistaliniano, arrivando ad ingannare Stalin in persona al riguardo. Molto più probabilmente, Šostakovič aveva soltanto scritto una musica per la sua città e la sua gente sofferente, un atto di pietà e compartecipazione verso il suo popolo da parte di un inteligent, più che l’attacco di un abile e celato oppositore del regime. Ma in questo caso, come in tutta la musica di Šostakovič, lo sforzo per risolvere ogni contraddizione ed eliminare ogni ambiguità inevitabilmente produce da se stesso un’altra serie di contraddizioni ed ambiguità. E il prezzo da pagare sarà sempre un ridimensionamento, non soltanto del significato dell’opera, ma anche del suo valore ed interesse. Il fatto è che nessuno conosce il significato di questa musica, che ha sempre lasciato il campo aperto a molteplici e contradditorie letture ed interpretazioni, spesso opportunistiche (da una parte come dall’altra): Eppure c’è da arrendersi di fronte a che nessuno riuscirà mai a possedere questa musica (così come, viene da dire, nemmeno potè in parte il suo autore, per i più svariati motivi - se ne parlerà in seguito). Durante il periodo di regime, naturalmente, il Partito protestava l’esclusiva validità della propria interpretazione. Ma l’assenza di una lettura definitiva è esattamente ciò che ha dato a questa musica il suo enorme valore sociale, la sua dirompente forza emotiva, il potere che tutt’ora esercita sui suoi fruitori. Nessun’altra musica costringe così radicalmente a confrontarsi con le più fondamentali norme dell’interpretazione. Nessun’altro corpus artistico dimostra con tale chiarezza come il significato non sia cosa necessariamente e completamente immanente l’opera, ma sorga da un processo di interazione tra soggetto ed oggetto, cosicchè l’interpretazione non consente mai l’esclusione aprioristica dell’una o dell’altra dimensione; e pienamente ci convince del fatto che il significato di un’opera d’arte, o meglio di ogni forma di comunicazione, non è sempre del tutto stabilmente definito, ma è il prodotto della sua storia, del contesto in cui è stata creata e della somma di elementi contingenti che portano alla sua fruizione; e si consideri poi il fatto che tali “scommesse” creative ed interpretative venivano poste in atto entro le frontiere di una brutale e sanguinaria tirannia. Che vengano lette nei termini del loro contenuto, o del loro contesto, le opere di Šostakovič risultano in ogni caso essere il luogo di un sottotesto potentissimo, che non può in nessun modo o misura essere ignorato; ed è per questo che sono sempre state, e sempre saranno, oggetto di un furioso e multiforme contendere. È difficile, se non impossibile, ricevere passivamente il loro messaggio; ci si sente perennemente coinvolti nella loro creazione, e pertanto non si può ostentare indifferenza. Šostakovič chiede sempre che si instauri un legame tra la sua musica, e chi l’ascolta.
La musica, nella tradizione sinfonica post-Beethoveniana (di cui il Nostro è stato probabilmente l’ultimo grande maestro), è (per quanto c’è chi potrebbe opporsi ad una tale lettura) il più potente mezzo mai concepito di espressione artistica. Si è dotata di un linguaggio sofisticato e altamente, precisamente specifico, codificato in una prolungata pratica di elaborazione melodica e gestione del materiale armonico, che l’ha resa capace di codificare un linguaggio interno di continui richiami, allusioni, mutazioni per mezzo di melodia e armonia (ovvero della successione diacronica come della sovrapposizione sincronica dell’impianto musicale), arrivando così a costituire un complesso e potente sistema interno di semiotica in grado di rappresentare enormi tensioni e liberazioni catartiche tali da esigere nell’ascoltatore una parallela risposta emotiva, controllata e diretta con più precisione (e dunque con più energia) che in qualunque altra forma d’arte.
Il repertorio di queste “allusioni intertestuali” crebbe enormememente dal tempo di Beethoven, grazie anche al fondamentale apporto del sinfonismo Mahleriano (modello amato e più volte richiamato dal crescente talento di Šostakovič) e, in Russia, dell’arte di Tchaikovsky (imprescindibile predecessore del Nostro come d’ogni altro compositore russo del ‘900). Tuttavia, per quanto la musica prenda nel suo svolgersi a simulare esteriormente il dispiegarsi di un dramma o di una narrazione, essa non consente una parafrasi punto per punto, definitiva. Più che con quello della comprensione razionale, determina una relazione con l’ambito dell’intuizione, sicchè la simbologia musicale si rivela come appartenete alla dimensione del “contenuto latente”.
È plurisecolare la diatriba che in primo luogo vide scontrarsi i sostenitori della musica “assoluta”da una parte e i fautori della musica “a programma” dall’altra, convinti i primi che questa debba essere priva di referenti, assertori i secondi di una precisa corrispondenza simil-testuale tra musica e soggetto della stessa. Tale discussione, che pure ha prodotto materia di discussione per tutto il diciannovesimo secolo (determinando anche in parte le alterne fortune dei compositori ottocenteschi), è andata via via scomparendo e perdendo di significato ai primi del Novecento, in una totale compenetrazione dei due opposti significati, nella convinzione di una potenza evocativa della musica, relativa però alla dimensione dell’inconscio, del sovrasensoriale, dell’irrazionale. Salvo poi riscoppiare con forza all’atto di nascita delle correnti avanguardiste sperimentali primonovecentesche quali, prima tra tutte, la dodecafonia schoenbergiana, fautrice di una idea di musica come assoluta razionalità, come materiale cerebralmente modellabile sulla base di principi matematici e logici (possiamo riconoscere in questa impostazione la causa del fortissimo distacco che si è poi avuto a metà secolo, generalmente in tutti gli ambiti della cultura, tra autore e pubblico, incapace di dotarsi di mezzi di comprensione troppo tecnici ed elitaristici). Verrebbe da dire che sia questa la posizione scorretta, quella che elimina interamente un livello di significato e di comprensione dalla musica, in che la impoverisce letteralmente, e senza ombra di dubbio. Eppure il versante opposto è altrettanto sbagliato. In una musica contenutisticamente determinata, in tutto e per tutto parafrasata, il latente diviene per così dire “invadente”, ed essendo completamente manifesto, si rivela superfluo. Dove il contenuto musicale latente non può essere negato né illustrato con successo - dove è insomma riconosciuto ma contestato - il valore del contenitore, allora sì, è immensamente accresciuto. In quanto (possiamo dirlo) massimo esponente di questa “scuola retorica post-beethoveniana”, Šostakovič era al contempo il più grande artista dell’Unione Sovietica ed ivi quello più strettamente tenuto al guinzaglio, proprio perché il suo era il veicolo di una poetica con il più forte distacco tra il suo contenuto manifesto e quello latente. A causa di ciò, egli fu l’unico artista sovietico acclamato ugualmente dalla cultura “ufficiale” ed al contempo da quella dissidente. Riuscì in questa impresa semplicemente lasciando agli altri l’interpretazione della sua arte. Non spiegare la sua musica - o meglio nessuna musica - se non a seguito di pressioni pubbliche, e comunque nei termini più vaghi ed inconsistenti divenne la sua difesa, una regola che osservò persino nella vita privata (si noti che nelle molte lettere che il compositore ha inviato ad amici e conoscenti, allorchè riferiva dei brani che stava componendo, poco diceva in realtà se non i tempi, il loro numero e il loro nome, la loro tonalità; ebbe a dire una volta, rivolgendosi al suo alunno Tishchenko: “Di solito sto a bocca chiusa. Non desidero né sono in grado di analizzare i brani che ascolto, o di discutere su di essi. Non faccio che ascoltare la musica che mi danno da ascoltare.”)
È innegabile che la musica strumentale di Šostakovič mostri la sua fede nella costituzione di un contenuto latente - così cara alla tradizione della sua nazione. Ma a differenza dei critici del realismo socialista, che in ogni modo cercarono di catalogare le immagini e le intonazioni della sua musica, egli continuò a mantenere labile l’immagine di questo sottotesto. La sua figura indusse sentimenti di pietà e rabbia, suscitò invidia ed approvazione, ma mai finì per occupare il limbo del pubblico e diffuso disinteresse che è stato il destino cui sono andate incontro le arti contemproranee in Occidente. Gli mancarono le libertà di cui godettero le sue controparti dell’Ovest, tra cui la libertà di essere indifferente e la libertà di rimanere in disparte e ai margini della storia. Accettò gli obblighi civili che gli furono attribuiti e tutto ciò che ne conseguì, dalle ricompense materiali alla progressiva devastazione fisica e psichica soprattutto.
La Settima portò questo meccanismo al suo apice, al contempo, di tensione ed efficacia. La colossale sinfonia a programma emerse come una sorta di gigante dalle gelide nebbie della Russia stalinista. Allorchè la sua fama valicò l’Atlantico, scoppiò una sanguinosa lotta tra i grandi direttori d’orchestra che operavano negli Stati Uniti, desiderosi di arrogarsi il diritto di dirigere la prima. La forte perorazione compiuta da Toscanini nei confronti di questa sinfonia fu almeno in parte dovuta alle sue implicazioni in ambito politico: “Sono stato profondamente colpito, dalla sua bellezza e dai suoi intendimenti anti-fascisti, e, devo confessare, ho sentito la necessità di dirigere la prima. Sarebbe molto interessante per tutti ascoltare il vecchio direttore italiano (uno dei primi artisti che strenuamente si oppose al fascismo) dirigere il lavoro di un giovane compositore anti-Nazista.” Fu una tale lettura “extramusicale” a determinare il successo della sinfonia, così come il mare di parole che su di essa furono spesi. I critici non mancarono di lanciare velenosi strali contro il successo della Settima, che fu a più riprese tacciata d’essere eccessivamente semplice e diluita, tautologica e ripetitiva, come fosse stata concepita per un pubblico incolto e “non musicale”, un mero mezzo di propaganda insomma, uno strumento politico di massa più che un’opera d’arte autonoma. Inevitabile e all’ultimo sangue fu lo scontro tra i sostenitori di estetica ed etica, trascendenza ed impegno, arte per l’arte o arte per le persone, per il popolo, scontro di cui la Settima divenne vera e proprio simbolo.
Nonostante la luce sotto cui essa venisse letta ed interpretata, alla musica, e a quella di Šostakovič in particolare, non si poteva non riconoscere il potere di dare ricetto a tendenze potenzialmente eversive ed anarchiche che andavano ad accumularsi negli strati popolari e dell’intellighenzia durante il periodo ’41/’45, allorchè, data la tragica situazione interna, il regime tollerò il maturare di una certa libertà d’espressione, purchè fosse indirizzata a celebrare la tradizione della grande Russia post-zarista e inneggiasse alla resistenza contro l’invasione nazista. L’Ottava e la Nona sinfonia furono, sotto questo profilo, estremamente deludenti: il Partito si aspettava che Šostakovič scrivesse una trilogia incentrata sulla guerra (cominciata appunto con la Settima); ma l’Ottava sinfonia, del ’43, risultò un cupo e pessimistico requiem per le vittime del conflitto (o forse di tutti i conflitti della storia umana, e, conseguentemente, anche dello stalinismo?), e fu aspramente criticata dai membri dell’Unione dei compositori; lo stesso si potrebbe dire della Nona (scritta nel ’45), che avrebbe dovuto essere il mastodontico inno trionfale per una Russia uscita vincitrice dalla guerra: alla prima del 3 novembre, gli astanti ascoltarono una musica striminzita (all’incirca 25 minuti di durata), mai seria, anzi buffa e giocosa, persino canzonatoria in certi passaggi. Šostakovič volle sottarsi dall’onere di rappresentare in musica un momento così importante per la sua patria e per la propaganda del Partito; ma soprattutto c’era una questione numerologica che lo preoccupava: la sua Nona avrebbe inevitabilmente fatto sorgere fastidiosi paragoni con quella, immortale, di Beethoven. E a conti fatti, anziché terminare in un erede dell’“Inno all gioia”, questa “barzelletta musicale” si concludeva con un movimento in tempo di marcia talmente triviale che, dobbiamo ammetterlo, stupisce non siano seguite ritorsioni di alcun tipo, ai danni d’un compositore tanto “irriverente”: certamente giovò in questo caso l’allentamento della censura politica che il conflitto aveva portato con sé in Russia.
Ma l’inversione di tendenza, terminato il conflitto, fu immediata e totale. A capeggiare questa nuova crociata contro la libertà d’espressione fu il nuovo intraprendente addetto alle faccende culturali di Stalin: Andreij Ždanov. La campagna che tra ’46 e ’48 portò ad innumerevoli purghe nelle arti e nelle scienze (nota poi col dispregiativo nome di ždanovščina) diede luogo a scene di meschinità e perfidia senza precedenti: si generarono spaccature tra studenti e docenti nelle scuole e Šostakovič, accusato di formalismo (assieme a Prokof’ev ed altri) in un decreto del 10 febbraio del ’48, restò del tutto isolato, privato della sua cattedra in Conservatorio; mentre nel ’36 non aveva ritrattato pubblicamente le sue opinioni, ora fu costretto a tenere un discorso di autocritica, promettendo di seguire le direttive del partito e di scrivere solo più musica “per il popolo”.
Cadde nuovamente in disgrazia: le sue opere precedenti non furono più eseguite (se non rarissimamente, piuttosto nascostamente e per una cerchia di estimatori) fino alla morte di Stalin. Il dittatore in persona tuttavia, circa un anno dopo, chiamò Šostakovič al telefono per proporgli (leggi: per imporgli) di far parte d’una delegazione di compositori sovietici che si sarebbe recata a New York per partecipare al Congresso culturale e scientifico per la pace nel mondo: non si era ancora pienamente in clima da guerra fredda, e Stalin ci teneva a far vedere agli “alleati” americani come i comunisti avessero a cuore la questione della pace nel mondo. Per Šostakovič fu un vero disastro: accolto come un divo, lasciò gli Stati Uniti tra durissime critiche, sollevate dai discorsi che aveva pronunciato nelle numerose riunioni con i gionalisti (dettatigli parola per parola da uomini del partito: arrivò persino a giustificare le parole dell’articolo della Pravda di tredici anni prima). La sua fama internazionale subì un colpo durissimo da cui difficilmente è riuscita poi a riaversi, se non in anni recenti: fu dipinto come uno scagnozzo del partito, un comunista convinto ed un lacchè di Stalin. Nel frattempo Šostakovič componeva l’oratorio patriottico “Canto delle foreste”, su testi del poeta Evgenij Dolmatovskij, gradito alle alte sfere. Il lavoro era un’“offerta sacrificale”, destinata a mostrare che, avendo assimilato le critiche del partito, l’autore aveva di nuovo abbracciato uno stile accessibile con melodie orecchiabili e semplici armonie ottimistiche. Parallelamente fu imposto ai membri delle Unioni delle arti di prendere lezioni e sostenere esami su materie quali il marxismo, il leninismo, lo stalinismo, eccetera.
Il 5 marzo del ’53, quando da poco era iniziata la vera e propria caccia agli ebrei scatenata dal celebre processo per la presunta “congiura dei dottori” dell’anno precedente, Stalin morì per un ictus, all’età di settantatrè anni. La notizia della morte del dittatore provocò uno shock, una sensazione di smarrimento tra la popolazione: “Da tempo avevamo dimenticato che Stalin era una persona. Si era trasformato in un dio onnipotente e misterioso. E ora il dio era morto di emorragia cerebrale. Sembrava inverosimile.” Non ci furono manifestazioni di gioia: gli intellettuali sovietici, e tra loro Šostakovič, avevano motivo di pensare che ci sarebbe stato un ulteriore giro di vite, come misura preventiva.
In quegli anni moltissime persone ricomparvero emergendo dai gulag nelle sperdute lande siberiane; Šostakovič si diede da fare spedendo un’infinità di lettere per propiziare la riabilitazione e la reintegrazione di queste specie di morti ambulanti dimenticati dall’umanità.
Il Partito, scomparso Stalin, riservò a Šostakovič ancora un’enorme sofferenza: il 9 aprile del ’60 egli fu eletto segretario della sezione russa dell’Unione dei compositori, elezione che dimostrava il suo senso civico e il suo desiderio di prendere parte alle decisioni concernenti colleghi e musicisti di tutta la Russia, ma che causò non pochi problemi, dal momento che il compositore non era membro del Partito. Gli furono fatte pressioni perché si iscrivesse: invitato a cena da alcuni attivisti che si diedero da fare a riempirgli il bicchiere, capitolò e firmò la domanda di iscrizione. Quando si accorse di ciò che aveva fatto, sprofondò per settimane in un profondo stato di angoscia: fu in tale occasione che i due figli lo videro piangere per la seconda volta (la prima era stata quando seppe della morte della moglie, nel ’52). In quegli stessi giorni compose, nel giro di settantadue ore, il suo Ottavo quartetto, evidentemente concepito come retrospettiva della propria opera di compositore, sorta di requiem per se stesso (Šostakovič maturò al tempo anche propositi suicidi), costituito di un’infinità di autocitazioni tratte dalle di lui opere più importanti. È una composizione che richiede espressamente di essere letta come autobiografica, un lavoro che Šostakovič concepì esplicitamente con l’intenzione di comunicare un messaggio (neanche più tanto a questo punto) latente. La contorta relazione tra il programma ufficiale - un requiem per le “vittime della guerra e del fascismo” - e la musica, che consisteva per la quasi totalità del monogramma musicale del compositore (DSCH: Re, Mi bemolle, Do, Si) in congiunzione tematica con allusioni ai suoi lavori precedenti, si rese evidente sin dal subito. Šostakovič si stava chiaramente mettendo sullo stesso piano di quelle vittime: stava subendo pressioni perché prendesse la tessera del partito, per essere esibito da questo come un trofeo, e non trovò in se stesso la forza per resistere a tali pressanti richieste. È in uno stato di umiliazione e auto-biasimazione, così come di rifiuto delle atrocità dei fascismi, che concepì quest’opera, concepita ed offerta come un’apologia, innanzitutto alla sua stessa coscienza.
Šostakovič è stato inappropriatamente assimilato a modelli precostituiti: nell’Unione Sovietica ormai sull’orlo del declino, fu evocato come un dissidente, in una forma che in Russia nemmeno esistette durante buona parte della sua esistenza; in Occidente fu invece evocato come un modernista alienato. Ma entrambe tali letture altro non fanno se non ridurlo ad un muto stereotipo. Lo Šostakovič maturo non fu un dissidente, e nemmeno fu un modernista: egli fu un inteligent, erede di una nobile tradizione di pensiero sociale ed artistico che aborriva dall’ingiustizia e dalla repressione politica. L’idea di Šostakovič non era quella di un’arte fondata sull’alienazione; anzi, egli trovò il modo di mantenere una funzione di “servizio” e contatto con la società (non certo nel senso e nei modi intesi dal Partito), senza per questo venir meno ad un principio di integrità morale (tutto ciò avvenne, ricodiamo, sotto una dittatura sanguinaria: molti altri al suo posto avrebbero immediatamente gettato la spugna, sottomettendosi alle imposizioni della dirigenza politica). In tal senso Šostakovič rimase un’artista, nel significato più sovietico della parola, “civile”: questa fu, in definitiva, la sua ironia, e la sua più grande vittoria. Mai la musica si era resa tramite per un intento più lodevole, e d’altronde proprio la musica era l’unica forma d’arte che potesse servire a tale scopo pubblicamente, sotto gli occhi di tutti, eppure silenziosamente, senza destare un sospetto; è per questo che quella di Šostakovič, così come sempre è stata facile oggetto di derisione da parte dei compositori occidentali, sempre ha interrogato e strattonato le loro coscienze con un’invisibile, incredibile forza. L’altissimo valore sociale che risiede in questa musica ha reso le loro arroganti preoccupazioni formali del tutto prive di senso; e la stessa corsa affannosa, verificatasi in anni recenti per opera di moltissimi scrittori, che hanno cercato di definire autoritariamente e opportunisticamente il valore dell’arte di Šostakovič, altro non ha fatto se non diminuirne il valore più vero e profondo, per se stesso inesprimibile. Tali “interpretazioni definitive”, specialmente se inquadrate in una lettura biografica e dunque totalizzante, rischiano di serrare la musica nel passato, rendendola oggetto di antiquariato, degno soltanto più di specualzioni accademiche; e invece il valore più alto della musica di Šostakovič risiede in che sempre sia riuscita, in ogni contesto ed epoca storica, a porre degli interrogativi: sulla natura e sul senso dell’arte; sulla natura del potere; sulla natura dell’uomo.
La vita di Šostakovič trascorse senza ulteriori scossoni, fino alla data della morte, avvenuta per arresto cardiaco il 9 agosto del ’75. Le esequie ufficiali di Stato, solenni ed ampollose, furono celebrate il 14 agosto nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca: ivi fu definito dai dirigenti politici “figlio leale del partito”. Il 25 settembre, data del suo sessantanovesimo compleanno, una stretta cerchia di amici, riuniti nell’appartamento moscovita del compositore, lo ricordò per l’ultima volta con l’esecuzione della Sonata per Viola, ultima magnifica partitura scritta in ospedale, sul letto di morte: nonostante non visse abbastanza a lungo da poterla ascoltare, siamo sicuri che quelle stupende note risuonassero in lui fino all’ultimo, nella sua mente, nel suo animo.






“Lo stadio, durante una partita di calcio, è l’unico luogo dove tutti possono dire
ad alta voce esattamente quello che pensano e vedono.” - Dmitrij Šostakovič







Bibliografia:
• Elizabeth Wilson: “Trascrivere una vita intera”;
• Solomon Volkov: “Stalin e Šostakovič”;
• Richard Taruskin: “Who was Šostakovič?”, articolo tratto dal numero di febbraio ’95 dell’Atlantic Monthly.

[Modificato da ashaam 18/01/2008 00:27]
18/01/2008 12:18
 
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Allora...
Io non sono d'accordo con Volodya, ma neanche con Clausci (con Ashi non so perché a leggere tutta la tesina gnaa posso fa' :D ). E' vero, in Shostakovich l'ironia e l'elemento parodistico sono spesso in evidenza (basti pensare al primo movimento della Quindicesima, ma anche alla Prima sinfonia), però sono in funzione di un atteggiamento graffiante, sarcastico, corrosivo... non so perché Ashi disprezzi tanto l'incisione di Shosta dei suoi concerti, a me sembra invece che egli li esegua in un modo che scioglie molti dubbi sulle reali intenzioni dell'autore: il primo movimento del Secondo concerto, che spesso viene suonato come se fosse una filastrocca musicale, assume nelle sue mani l'aspetto di una marcia quasi mahleriana, dall'incedere devastante. Io credo che Shostakovich avesse bisogno dell'ironia per meglio rappresentare il suo pessimismo totale: più terribile ancora della tristezza è la parodia della felicità.
18/01/2008 12:31
 
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Janacek80, 18/01/2008 12.18:

Allora...
Io non sono d'accordo con Volodya, ma neanche con Clausci (con Ashi non so perché a leggere tutta la tesina gnaa posso fa' :D ). E' vero, in Shostakovich l'ironia e l'elemento parodistico sono spesso in evidenza (basti pensare al primo movimento della Quindicesima, ma anche alla Prima sinfonia), però sono in funzione di un atteggiamento graffiante, sarcastico, corrosivo... non so perché Ashi disprezzi tanto l'incisione di Shosta dei suoi concerti, a me sembra invece che egli li esegua in un modo che scioglie molti dubbi sulle reali intenzioni dell'autore: il primo movimento del Secondo concerto, che spesso viene suonato come se fosse una filastrocca musicale, assume nelle sue mani l'aspetto di una marcia quasi mahleriana, dall'incedere devastante. Io credo che Shostakovich avesse bisogno dell'ironia per meglio rappresentare il suo pessimismo totale: più terribile ancora della tristezza è la parodia della felicità.




posso chiederti in che cosa non sei d accordo di preciso?
io ho solo riportato ciò che ho sentito, e vorrei sapere dove ho sbagliato visto che in due mi avete detto che nonsiete d accordo..su cosa? non mi pare di essermi lanciato in critiche musicali... cmnq quoto quello che hai detto si avvicina alla sensazione che ho io ascoltandoalcuni suoi lavori.
se si intendevano le sue incisioni dei concerti per piano io le adoro.



"Non ho bisogno di consigli sull'archetto perchè ho comprato assieme al violino un libricino che spiega tutto su come manovrarlo."
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dunque, io dico fanno cagare tecnicamente, in quanto ad interpretazione sono sì estremamente importanti perchè stravolgono la lettura che spesso viene data di quelle opere dagli altri pianisti. L'ironia in shostakovich....beh, da un certo punto in poi è sempre amara, è sempre ironia deformante e grottesca, volta a canzonare quanto di inumano esiste nell'uomo. È un sorriso che aiuta a sopportare il dolore, ma non a dimenticarlo.
Quanto alla questione alcool e fumo...sì, era un tabagista, ma solamente un amante di vodka e affini. In tarda età la moglie gli proibì di bere alcoolici, il che portò più volte shostakovich ad un blocco creativo, che ogni volta si risolse alla clandestina bevuta d'un bicchiere di vodka (non scherzo)


Nessuno che legga la tesina? siete degli infami :o
18/01/2008 16:02
 
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è molto interessante ascoltare quello che dice richter su shostakovich in "the enigma"
it.youtube.com/watch?v=o30hSCYEw_E

la testina ashaam la leggerò stasera... :P



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Re: Re:
clausci, 1/18/2008 12:31 PM:




posso chiederti in che cosa non sei d accordo di preciso?
io ho solo riportato ciò che ho sentito, e vorrei sapere dove ho sbagliato visto che in due mi avete detto che nonsiete d accordo..su cosa? non mi pare di essermi lanciato in critiche musicali... cmnq quoto quello che hai detto si avvicina alla sensazione che ho io ascoltandoalcuni suoi lavori.
se si intendevano le sue incisioni dei concerti per piano io le adoro.


Hai ragione Cla', scusami, è che con la febbre il raffreddore la tosse il mal di gola la nausea lo svenimento di ieri e le tre ore di sonno di stanotte avevo capito fischi per fiaschi del tuo post. Siamo d'accordo.

31/01/2008 23:48
 
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vi regalo questo video
non saprei come interpretazione, però secondo me le inquadrature aiutano un sacco ad entrare nella musica del genio
it.youtube.com/watch?v=AGecTrhNzG4
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